Tai chi chuan nei licei

Da tempo desideravo mi potesse capitare. Insegnare Tai chi chuan in una scuola superiore. Provare a confrontarmi con l’adolescenza.

Lo temevo e lo auspicavo.

Lo temevo perchè da anni ormai insegno ad adulti e a bambini: con i ragazzi avevo avuto una sola esperienza, per altro meravigliosa, molti anni fa, in un liceo artistico a Cittadella, grazie ad un’amica attrice, all’interno di un laboratorio sul corpo. Certo nel passato ho insegnato alle medie, ma italiano, storia, geografia, quando ancora non ero laureata.

Ho parlato con molte amiche insegnanti nel corso del tempo, ma dovevo trovare un contatto con un o una insegnante di educazione fisica, qualcuno che credesse nel potenziale educativo del Tai chi chuan, nei suoi principi: una potente metafora formativa.

Quest’anno, finalmente, l’occasione è arrivata. In un Liceo di Udine ho potuto fare alcune lezioni dimostrative, seguite da un ciclo di un mese di lezioni alle quali hanno partecipato numerose classi. Un’afflueza che certo non mi aspettavo. Della quale devo ringraziare gli insegnanti che hanno sputo motivare gli alunni a provare.

Ragazzi e ragazze dai 14 ai 20 anni … gruppi che andavano dai 25 ai 50 alunni che mi trovavo spesso a coinvolgere il più delle volte da sola.

La percezione del Tai Chi Chuan è ancora distorta e frammentaria.

I più ancora non lo conoscono, pensano sia una ginnastica lenta e, di base, piuttosto noiosa.

Ho cercato loro di far conoscere i principi, più che le tecniche: la necessità sopratutto dell’ascolto, del proprio corpo e delle proprie emozioni.

Giocare si deve, sempre. Sfogarsi spesso può far bene, ma c’è modo e modo. Il modo proposto dal Tai Chi Chuan si basa sulla flessibilità , sull’abilità maturata nel tempo (KUNG FU), sull’osservazione della propria reattività per poterla mitigare.

Trasformare la forza dell’altro senza opporsi con rigidità. La vecchiaia è questione di rigidità non di anagrafe.

La via è quella del guerriero: un guerriero sa sempre dov’è, conosce lo spazio che occupa, sa aspettare, sa reagire consapevolmente.

La lentezza serve, per sviluppare il massimo della velocità ed economizzare energia.

Si tratta di CONNETTERSI, ma a tutto un sistema che è fatto di corpo, di mente, di emozioni. E’ fatto di ascolto, di giuste distanze e calibrate reazioni.

Finchè continueremo a considerare il corpo solo un involucro più o meno tonico, seduttivo, esteriore, non andremo da nessuna parte.

E chi meglio dei ragazzi dovrebbe essere educato a questo? Serve coordinamento, attenzione, intenzione: servono i pugni, i calci, le proiezioni se ben allenati. Un mio Maestro mi fece capire che la più grande paura dell’essere umano, più ancora della morte, é quella di cadere. Una paura antica. Se cadi vieni divorato. Imparare a cadere da giovani è importante.

Cadere e rialzarsi, cadere e rialzarsi, cadere e rialzarsi: è la vita.

Serve il silenzio, la calma , la concentrazione: se la impari nel corpo, sarai in grado di trasferirla anche su altri livelli.

Serve tutto: e nel Tai chi c’è tutto, ma NON SUBITO, non in maniera eclatante ed esplosiva, ci vuole allenamento, metodo, costanza: c’è l’armonia e l’improvvisazione della danza, la potenza della marzialità, la calma della meditazione.

Bisognerebbe che i giovani lo sapessero.

In contesti sempre più ampi rispetto a quelli dove finora sono state confinate le arti marziali.

Io ci ho provato, con tutta me stessa, i miei limiti e le mie contraddizioni.

Le risposte ci sono state , molte, le più varie: dall’entusiasmo, allo sprezzo, dalla paura all’abbandono totale.

Un’esperienza che ha fatto e mi ha fatto imparare.